Condividiamo l’articolo del Dottor Daniele Guoli, psicologo esperto in trattamento con uomini autori di violenza domestica:
Spesso si argomenta che la violenza è dovuta ad una perdita di controllo del nostro comportamento, che l’atto sia conseguenza di qualche impeto irrefrenabile e incontrollabile che rimane fuori dalla nostra portata. Nutro invece l’irrefrenabile desiderio di poter pensare (sia professionalmente sia umanamente) che l’atto di violenza possa essere l’intento di recuperare il controllo su di una situazione che temiamo ci stia sfuggendo di mano. Un atto cioè volontario per attutire un timore, una paura.
Pensiamo a quei casi in cui chi maltrattava ricercasse, per sentirsi al sicuro, lontano da occhi indiscreti, una certa privacy, per non correre il rischio di compromettere la sua immagine sociale. Atti di violenza che venivano agiti solo dopo che l’artefice si fosse accertato di chiudere le finestre affinché i vicini non sentissero. O più semplicemente a quelle situazioni in cui l’irruente necessità di alzare la voce viene smorzata (da noi stessi) quando ci preoccupiamo dei passanti per strada o di chi sta seduto vicino a noi al ristorante. Come possiamo negare qui una coscienza dietro i nostri atti? E se tale consapevolezza risiedesse dietro tutti i gesti o parole atte a offendere che manifestiamo, come tentativi disperati ma elaborati di comunicare?
Anche nelle situazione più disperate e violente, pare vi sia l’occasione di un momento di lucidità, in cui il ragionamento riprende posto al comportamento violento che ci eravamo concessi. Quando lanciamo qualche oggetto affermiamo di essere in preda alla rabbia ma potremmo scoprire che, poco prima, abbiamo scelto di scagliarlo verso il muro e non verso la persona (“sennò le facevo male”); oppure di aver scelto un oggetto o una parte dell’oggetto per minacciare poco pericoloso (“la colpivo col coltello ma dalla parte piatta”); o poco costoso (“avevo il computer tra le gambe ma ci ho pensato due volte prima di scagliarlo; alla fine l’ho appoggiato e mi sono alzato con irruenza”). Se decidessimo di colpire il nostro cane per strada, potremmo scoprire che comunque, poco prima, ci siamo assicurati di non essere osservati. Se, nei casi più estremi, ci trovassimo con le mani al collo della nostra compagna, potremmo scoprire di aver lasciato la presa poco prima, quando già il colore delle labbra fosse blu, e le mancasse un ultimo secondo di vita: “perché ha mollato la presa?” chiede provocatoriamente il clinico; “Sennò sarebbe morta..” afferma l’ex; e se la scelta di mollare la presa sul collo (nessuno lo ha obbligato) fosse del tutto simile a quella di afferrare?
A monte di tutto ci manca evidentemente un’alternativa alla violenza, qualunque essa sia, dialogo oppure confronto. Probabilmente sin da piccoli quest’ultimo l’abbiamo trovato più difficile da attuare e apprendere; più semplice, sbrigativa ed efficace a breve termine è la violenza.
E’ indubbio che ogni volta che agiamo scomposti, che esageriamo, l’autostima è sempre più bassa, e ci torturiamo internamente. Ricordo la testimonianza di un uomo violento: “gli altri non sanno che quando la violenza cessa, in realtà dentro di me continua”. Se riusciremo anche solo una volta vedere e percepire le nostre offese, qualunque esse siano, come un gesto disperato ma cosciente, di un bivio non percepito ma imboccato dalla parte sbagliata, avremo rotto uno schema, una patina; la nostra autostima sarà più alta, ci ammireremmo di più, cominceremmo a pensare che forse abbiamo più responsabilità di quanto pensiamo, ma soprattutto cominceremo ad avere speranza.